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Quando infine anche la mia sinistra comprese la grandezza di Totò

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Articolo tratto dal numero di Tempi in edicola (vai alla pagina degli abbonamenti) – Goffredo Fofi non mi ha, legittimamente, mai amato ma io ho amato lui. Capita. Da ragazzo divorai il suo libro Il cinema italiano: servi e padroni e poi il suo volume su Totò. Eravamo all’alba degli anni Settanta e le librerie Feltrinelli alimentavano di libri tanti ragazzini affamati dalla voglia di capire il mondo e, magari, di cambiarlo.

Il volume su Totò mi affascinò moltissimo e della riscoperta del principe Antonio de Curtis buona parte del merito va proprio a Fofi. Che poi, come succede a chiunque, tranciò anche giudizi rivelatisi troppo severi su altri magnifici autori e attori del cinema italiano. Ma su Totò a Fofi va riconosciuto il coraggio intellettuale di aver fatto capire che non bastava, specie a sinistra, celebrarlo se girava Uccellacci e uccellini di Pasolini. Troppo facile. Il vero Totò, la sua grandezza, erano altrove.

Erano nella storia della sua fatica di artigiano dei palcoscenici roventi dell’avanspettacolo e nella meravigliosa, semplice, ripetitività dei copioni che gli venivano affidati e che lui travolgeva rendendo ogni film “un film di Totò”.
Totò lo si trova nella scena del wagon-lit con Castellani, in quella della lettera con Peppino in Totò, Peppino e la malafemmina, lo si trova quando dice «Guarda Omar quanto è bello» o quando, sbirciando una cameriera procace, esclama sospirando: «La serva, serve».

Era un genio, esplosivo e malinconico. Non aveva mezze misure. Alla fine non vedeva quasi più, gli occhi mangiati dalle lampade per illuminare la scena dei primi film a colori. Chiesi una volta a Federico Fellini se era vera la storia che lui aveva raccontato: Totò non vedeva ma, quando era sul set, riconosceva i segni a terra e si muoveva come se avesse dieci diottrie. Fellini inventava, o colorava le cose e i fatti. Sordi diceva di lui che era il più grande bugiardo della storia. Ma realtà o fantasia che fosse, è una storia bellissima. Totò, cinquant’anni dopo la sua morte, è ancora tra noi. Siamo noi, ciechi, che non lo vediamo più.

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